Gravimoti: la discussione continua (Patrizio Petricca e Giuseppe De Natale)

Patrizio Petricca (Università Sapienza, Roma). Caro Gianluca, grazie per questa tua intervista che alimenta la discussione alla base della ricerca scientifica, importante sia tramite canali ufficiali (le riviste peer-reviewed) che, in qualche modo, su blog come questo. Condivido ciò che dice nel suo commento Giuseppe De Natale, che riprende un concetto di Popper, ovvero che la Scienza progredisce attraverso nuove proposte che spingono la comunità scientifica a chiarire meglio i concetti ed a trovare precisamente gli errori. Vedo con soddisfazione che l’argomento genera interesse e spero che in futuro il modello venga confutato o confermato da nuovi studi.

Il modello dei graviquakes, che tratto come autore o coautore in vari lavori, è spesso criticato sulla base del meccanismo di doppia coppia, che è un sistema di rappresentazione di forze non in contrasto con quanto previsto dal collasso gravitativo. Questo punto viene spesso sollevato e utilizzato come argomento a sfavore con “darebbe osservazioni diverse dal modello di doppia coppia”. Sarebbe interessante capire quali siano le differenze nelle osservazioni (sismologiche) di uno stesso risultato (scivolamento del tetto lungo la faglia) controllato però da due meccanismi differenti (accumulo di energia elastica o gravitazionale).

Non posso non notare, nel tuo post e nei commenti, una certa confusione tra la critica al modello generale e a uno dei suoi osservabili (o meglio al metodo utilizzato per evidenziarlo). Nell’articolo di Segall e Heimisson (2019), in effetti, si critica il metodo utilizzato per il calcolo del “volume unbalance” e si dimostra che per generare i valori di sollevamento/subsidenza descritti in Bignami et al. (2019) è sufficiente utilizzare una sorgente puntiforme (anche se con una discrepanza nei risultati del 20% che non è un valore trascurabile). Mi astengo dal commentare il metodo DinSAR poichè non conosco la materia. Il punto è che il risultato di Segall e Heimisson non confuta affatto il “volume unbalance” ma lo descrive a partire da un’ipotesi differente. Quanto discusso in quel lavoro si concentra su uno degli osservabili che il modello dei graviquakes cerca di giustificare teoricamente. Di conseguenza non vedo come il loro risultato possa perdipiù confutare (come confermi anche tu in un commento successivo) il modello generale. Il rasoio di Occam si applica quindi al volume unbalance, al metodo utilizzato per calcolarlo o al modello generale? Sono cose diverse.

Il mio commento non voleva però entrare nel merito del modello dei “graviquakes” (in quanto gia fatto da Carlo Doglioni nel post di risposta a questo tuo articolo). Piuttosto vorrei riportare, brevemente, alcune considerazioni che a me inducono a ragionare su un modello del ciclo sismico diverso (qualunque esso sia) e dubitare del convenzionale.

La teoria dell’elastic dislocation. Tu dici che, per descrivere il campo di deformazione generato da un forte terremoto questa teoria è comunemente accettata. Nel commento di De Natale leggo “La teoria della dislocazione elastica è estremamente generale, estremamente elegante e, in senso fisico-matematico, estremamente semplice. Le osservazioni fondamentali sono estremamente d’accordo con la teoria”. Quindi mi domando, la teoria della dislocazione elastica è il modello ultimo e abbiamo l’unico obiettivo di migliorarla e raffinarla? Approfondendo la letteratura al riguardo si hanno impressioni diverse. Ad esempio questa teoria è comunemente “utilizzata” (e non accettata) perchè, questo si, è “semplice”. La comunità dei ricercatori che si occupa di hazard sismico ne è consapevole, ed emerge chiaramente sia nei numerosi lavori che la criticano sia in quelli, altrettanto numerosi, che la utilizzano. Le osservazioni fondamentali non sono “estremamente” d’accordo con la teoria; tuttaltro. Questo si può leggere e approfondire in numerosi articoli scientifici (si vedano ad esempio Stein et al., 2012; Wyss, 2015; Geller et al., 2016). Gli osservabili non sono così in accordo con quanto previsto dal modello (rimando ancora alla risposta di Doglioni). Le difese appassionate di tale modello (elastico) non mancano anche se il suo utilizzo ha portato in passato a numerosi errori di previsione.

Ad ogni modo il mio commento a tutta la discussione è che, a prescindere se i gravimoti rappresentino o meno un nuovo paradigma, bisogna ammettere che nella letteratura si percepisce dell’incertezza sull’argomento, che porta a farsi domande e forse nasconde la necessità di una teoria alternativa. Ben venga il dibattito.

Bignami, C., Valerio, E., Carminati, E., Doglioni, C. and Tizzani, P. (2019). Volume unbalance on the 2016 Amatrice – Norcia (central Italy) seismic sequence and insights on normal fault earthquake mechanism. Scientific Reports, 9:4250.

Geller, R.J., Mulargia, F. and Stark., P.B. (2016). Why we need a new paradigm of earthquake occurrence. Subduction dynamics: From mantle flow to mega disasters, geophysical monograph 211, 183-191.

Segall P. and Heimisson, H.R. (2019). On the Integrated Surface Uplift for Dip-Slip Faults. Bulletin of the Seismological Society of America, 109 (6): 2738-2740.

Stein, S., Geller, R.J. and Liu, M. (2012). Why earthquake hazard maps often fail and what to do about it. Tectonophysics, 562, 1-25.

Wyss, M. (2015). Testing the basic assumption for probabilistic seismic‐hazard assessment: 11 failures. Seismological Research Letters, 86(5), 1405-1411.

 

Giuseppe De Natale (INGV, Napoli). Entro di nuovo nella discussione per commentare alcune affermazioni di Patrizio Petricca, sulle quali mi sento in dovere di fare delle precisazioni; che riguardano di fatto non la Sismologia ma il metodo scientifico.

So che sembra strano dover discutere di argomenti basilari che nella ricerca scientifica dovrebbero essere dati per scontati. Sembra però che negli ultimi anni il proliferare delle riviste scientifiche, e la stessa ossessione per le pubblicazioni come valore ‘metrico’ (vedi H-index), e non per il valore intrinseco di ciò che affermano, abbia portato spesso a dimenticare i concetti di base; che quindi vorrei qui ribadire.

Innanzitutto, non era mia intenzione, nel commento al post di Gianluca Valensise, scomodare Popper. Popper è nato nel 1902; le basi del metodo scientifico risalgono a molto prima (Occam è del 1300, Bacone del 1200; Galileo, pietra miliare del metodo scientifico, del 1600). La Scienza va avanti così, da sempre. E dunque voglio spiegare meglio, visto che non sembra essere stato ben compreso, il senso del mio commento.
La teoria della dislocazione elastica è una elaborazione fisico-matematica assolutamente universale, validata da tutte le osservazioni di qualunque tipo su qualsiasi materiale (anche quelli recenti di sintesi, polimeri, ecc.) che, entro certi limiti, abbia un comportamento molto vicino a quello di un solido elastico ‘ideale’. Poi, la teoria della dislocazione elastica viene applicata ‘anche’ per spiegare l’origine dei terremoti; ed anche qui non c’è mai stata alcuna ‘forte discrepanza’ che non possa essere motivata dalla non piena corrispondenza tra i materiali rocciosi dell’interno della Terra e i mezzi elastici ‘ideali’; colpisce semmai, come dicevo, l’incredibile corrispondenza con quanto realmente osservato anche in mezzi estremamente complessi.

Il senso del mio commento, necessariamente dai toni sfumati per il dovere di presupporre che certi concetti di base siano ben noti a tutti coloro che si occupano di ricerca, voleva puntualizzare appunto che non si può confutare una teoria ‘universale’, applicabile in innumerevoli ambiti, sulla base di ipotetiche piccole ‘deviazioni’, la cui significatività è tutta da dimostrare (e finora assolutamente indimostrata), che esisterebbero in un ambito estremamente ristretto (i terremoti di faglia normale). D’altra parte, il mio commento nell’ultima frase aggiungeva un’altra cosa che evidentemente non è stata compresa. Ossia che, a parte il ‘volume unbalance’ che, come si è detto, non è realmente misurabile con la precisione affermata, ma anche se lo fosse sarebbe ‘dimostrabilmente’ in accordo con i modelli di dislocazione elastica, non c’è alcuna osservazione fondamentale che il modello ‘graviquakes’ riesca a spiegare e la teoria della dislocazione elastica no.

D’altra parte, quando si afferma appunto (qualitativamente peraltro) che il modello ‘graviquakes’ produrrebbe dati sismologici equivalenti a quelli previsti dalla teoria della dislocazione elastica (sorvolo sul fatto che secondo me non è vero, nel senso che il modello ‘graviquakes’ non spiegherebbe molte osservazioni fondamentali), si sta esattamente dicendo che non ci sono implicazioni sostanzialmente differenti e tali da giustificare l’abbandono di una teoria universalmente validata ‘anche’ per i terremoti di faglia normale. E quindi, quali sarebbero i motivi per abbandonare un modello ancorato ad una teoria ‘universalmente riconosciuta’ in favore di qualcosa di diverso, valido solo in un ambito molto locale, che produrrebbe gli stessi osservabili?

Stavolta cito veramente Popper, e dico che un modello non ‘falsificabile’ non ha molto senso. E lo posso dire anche molto più semplicemente, come probabilmente lo spiegavano i filosofi del ‘200: affermare che la pioggia non è prodotta dalla condensazione del vapore acqueo che ricade dalle nuvole, ma il risultato del pianto di tanti angioletti invisibili e giammai rilevabili in alcun modo, non ha evidentemente senso. Questo discorso, ovviamente, non va assolutamente confuso con altri: tipo ‘previsione dei terremoti’, ‘ciclo sismico’, ‘determinazione della pericolosità sismica’.

Questi problemi, che nel post di Petricca sembrerebbero l’argomento principale di confutazione della teoria della dislocazione elastica (e difatti quasi tutta la letteratura portata ad esempio verte su tali questioni), sono di tutt’altra natura. Rappresentano infatti il nostro limite nella conoscenza e nella trattazione di fenomeni estremamente complessi come l’accumulo e la dissipazione di sforzi tettonici; oppure, nel caso delle stime di pericolosità, rappresentano scelte ‘convenzionali’ (ossia dettate dall’utilità e dagli scopi) per difenderci dai danni dei terremoti. Ma questi, che sono ‘modelli’ (empirici) nel senso stretto della definizione, non hanno nulla a che fare con la validità o meno della teoria della dislocazione elastica, che deriva invece dallo sviluppo di equazioni che descrivono il comportamento fondamentale dei solidi; né tantomeno possono metterla in discussione.

Che poi anch’io abbia letto su alcuni quotidiani (ed ascoltato personalmente in alcuni seminari, non senza essermi alzato per puntualizzare il mio dissenso scientifico), dopo alcuni forti terremoti recenti, che i massimi danni avverrebbero nella zona di abbassamento prodotta dalle faglie normali per effetti ‘gravitativi’, non voglio neanche commentarlo; da Sismologo (e da persona che si occupa di Scienza) preferisco dimenticarlo.
Spero stavolta di essermi espresso in maniera meno ‘sfumata’, in modo comprensibile a tutti.

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