Che cosa rimane della vicenda giudiziaria “Grandi Rischi” (di Claudio Moroni)

Introduzione di M. Stucchi.
Ogni tanto appaiono “aftershocks” del cosiddetto processo “Grandi Rischi”: in genere dalla parte dell’accusa e del giudizio di primo grado, ovvero di chi non si rassegna al fatto che le successive sentenze hanno demolito il castello accusatorio. Ad esempio, proprio in questi giorni alcuni media hanno rifritto un po’ di aria in relazione alla nomina di Mauro Dolce a Assessore della Regione Calabria.
Ma parliamo di cose più importanti.  
l giudice del processo di primo grado, Marco Billi, nel 2017 pubblicò un libro dal titolo “La causalità psichica nei reati colposi”, sottotitolo “Il caso del processo alla Commissione Grandi Rischi”. Nel volume, in realtà dedicato quasi integralmente al sottotitolo (peraltro errato, come provato dalle sentenze successive alla sua) e nelle occasioni in cui l’ha presentato, l’autore sostiene fra le altre cose che “riscriverebbe” oggi la stessa sentenza (in parte lo fa, appunto), frase che fa rabbrividire e addirittura dubitare della Giustizia. Per fare un paragone, gli arbitri di calcio che manifestamente fanno errori importanti vengono sospesi, anche se le partite non vengono rigiocate. In questo caso no: la Corte d’Appello ha letteralmente fatto a pezzi la sentenza di primo grado e l’accusa su cui si basava, e Billi può continuare a pensare di essere nel giusto e affermarlo in giro. Peraltro, è persona impegnata e sensibile, dato che ha pubblicato un volume sul problema del “fine vita”.
Di recente, il giornalista Alberto Orsini ha pubblicato un volume che raccoglie gli articoli da lui pubblicati su “abruzzoweb.it” nel corso della lunga vicenda giudiziaria. Un volume senza dubbio utile come antologia, con l’aggiunta di chiose dell’autore ai suoi stessi articoli, chiose meditate a vicenda conclusa: peccato solo per il titolo e l’iconografia. In una delle prefazioni, così come in una delle presentazioni in pubblico, il giudice Billi sostiene che sia giusto che lo Stato possa processare se stesso. Concordo, ma aggiungo: se vi sono le ragioni per farlo. Se si costruisce un impianto accusatorio a dir poco farlocco e la Corte d’Appello e la Corte di Cassazione concludono che per sei dei sette imputati “il fatto non sussiste”, di che cosa stiamo parlando? Questo blog tornerà sull’argomento con un prossimo post. Nel frattempo pubblichiamo un articolo rimasto in archivio per lungo tempo, dal 2017, scusandoci con l’autore per il ritardo.

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Claudio Moroni, ingegnere. Opera da sempre nel campo delle strutture, con particolare riferimento alla riduzione del rischio sismico, sia nell’ambito della ricerca numerica e sperimentale, sia in quello della diffusione della conoscenza e delle applicazioni reali sul campo. Fa, ed ha fatto parte, di numerose commissioni per la redazione di norme, linee guida ed istruzioni.

Premessa. Una fortuita ricerca di redazione ha rispolverato un pezzo ormai quasi dimenticato che, riletto oggi, è più che mai attuale. Si potrebbe dire che negli ultimi anni, con la questione “Palamara”, la cronaca ha acclarato che i riscontri sul campo relativi alle non rare distorsioni del sistema inquirente, e talvolta anche giudicante, in alcuni casi costituiscono persino la regola, invece che l’eccezione. Ciò, per contro, non muta di una virgola la sostanza di quanto, con riferimento al “processo Grandi Rischi”, era stato analizzato con il dovuto distacco di tempo dagli eventi e che, nel seguito, si riporta integralmente.

E’ passato qualche anno da quando, in attesa della sentenza d’appello, rimettevo la mia speranza in una magistratura capace di analizzare i fatti senza pregiudizio e con il dovuto distacco razionale che dovrebbe caratterizzare chi ha il compito di giudicare. Come sono poi andati i fatti è cosa nota all’intero mondo e, data la riforma della sentenza, sembrerebbe ovvio che possa considerarmi felice e tutto sia tornato a posto. Non è così, o almeno credo non potrà mai più essere esattamente come prima, così come non potrà esserlo per coloro che, erroneamente, sono stati definiti, e talvolta essi stessi si sono definiti, “parte” avversa. Un procedimento giudiziario, soprattutto quando penale, ha un effetto devastante sia per gli imputati, che quando innocenti non possono che considerarsi giustamente vessati da una abnorme ingiustizia, sia per le parti civili che, logicamente, devono dedurre che se una Procura richiede il rinvio a giudizio, necessariamente siano stati individuati elementi di colpevolezza tali che il Giudice chiamato ad analizzarli non potrà che confermarli nei diversi gradi previsti dal sistema giudiziario. Quest’ultimo aspetto è ciò che ho sempre pensato da cittadino estraneo alle vicende che di volta in volta la cronaca raccontava. Non vedo perché i parenti delle vittime, peraltro provati da un terribile dolore, ancor più insopportabile se relativo alla perdita di un parente o, peggio, di un figlio, dovrebbero riuscire ad averne una visione diversa.

Mio malgrado, seguendo il procedimento “Grandi Rischi”, ho imparato che è abissale la distanza tra la percezione che ne ha il cittadino comune e la realtà del sistema giudiziario. Ero fermamente contrario ai termini di prescrizione e convinto che fossero l’escamotage voluto dai malfattori per sfuggire alle loro responsabilità. Consideravo l’operato dei Pubblici Ministeri (PM) pressoché identico a quello dei Giudici e non sopportavo che un individuo rinviato a giudizio potesse asserire di essere una persona non solo innocente ma, addirittura, estranea ai fatti, in spregio al fatto che ben due magistrati, PM e Giudici dell’Udienza Preliminare (GUP), avevano ritenuto di imputarlo, magari a fronte di un fascicolo che i mezzi d’informazione comunicavano essere di migliaia di pagine.

Ho imparato che anche il mondo giudiziario, come qualsiasi settore, ha le sue regole, le sue prassi e non è affatto privo di storture. Ho dovuto apprendere che, se i cittadini avessero un’adeguata preparazione in materia, basterebbe analizzare quanto lunghi siano i termini di prescrizione italiani per comprendere che sono sintomatici di un sistema malfunzionante, quasi medievale e tutt’altro che assolutorio. Che il GUP non è chiamato a valutare se l’indagato è colpevole o innocente ma, esagerando, quasi solo a “ratificare” il rinvio a giudizio chiesto dal PM. Che i faldoni sono pieni di articoli di giornali (!?!!), fotocopie di missioni della Polizia Giudiziaria che esegue le indagini, richieste di missioni, autorizzazioni alle missioni, ricevute di buoni pasto, ecc., e che dei fatti oggetto delle indagini se ne parla spesso in poche pagine, al massimo ritrascritte o fotocopiate più volte. Che se sei veramente innocente, ed hai ragioni da vendere, l’avvocato ti consiglia di non raccontarlo praticamente mai, onde evitare che il PM si adoperi per forzare qualche elemento così da nascondere, o quanto meno rendere meno evidenti, le tue ragioni al Giudice. Peraltro, più l’innocente sta zitto, più il procedimento non ha tecnicamente modo di fermarsi (considerando che talvolta i PM si adoperano a trovare i pochi elementi a favore dell’indagato solo per confutarli e non per analizzarli a sua discolpa), cosa che ovviamente finisce con l’accrescere la parcella dell’avvocato ed aumentare la convinzione collettiva che sia stato individuato il colpevole.

La cosa per me più sconcertante è che analizzando il sistema non riesco ad individuare una colpa specifica in qualcuno. Certamente si potrebbe dire che le Procure dovrebbero operare con più diligenza. Ma quanti rischi corrono? I PM sarebbero da classificare santi già solo quando decidono di svolgere quel ruolo. E quante migliaia di pratiche hanno? Allora si appoggiano molto alla Polizia Giudiziaria, a cui di fatto viene affidata l’indagine. Allora sono questi ultimi i responsabili? Persone che con spirito di servizio passano il tempo a leggere carte, cercare di capire fatti di cui non hanno nessuna competenza, il tutto incrociandolo con una conoscenza giuridica spesso sommaria. Certo, qualche volta qualcuno di loro si esalta, sentendosi padrone della verità e giustiziere dei cattivi, forse talvolta inconsciamente considerati tali ancor di più se c’è un divario di ruoli o di stipendio, calpestando buon senso e diritto. Ma, per contro, se non trovassero un individuo a cui attribuire una colpa, i giornali griderebbero allo scandalo millantando che gli inquirenti non sanno fare il loro dovere. In fondo è dai tempi dei romani che, soprattutto l’italiano, trova piacere nel vedere qualcuno sbranato. Ieri si andava al Colosseo, oggi c’è l’informazione che ci solleva nel sapere che ci sono tanti cattivi/ladri/malfattori in giro per l’Italia a cui attribuire le malefatte ed il malfunzionamento del nostro Paese. Questo fornisce l’indulgenza plenaria alla nostra coscienza che possiamo così continuare a considerare candida e pulita, anche se magari delle otto ore di lavoro, una la passiamo a leggere sul giornale le presunte malefatte altrui e, altre due, a commentarle con i colleghi delle altre stanze.

Insomma, ho imparato tanto, a cominciare dal fatto che, soprattutto quando si cerca di operare seriamente e coscienziosamente, bisogna avere la fortuna di stare lontani da eventi mediatici che possano calamitare l’attenzione morbosa degli “spettatori”, e conseguentemente del sistema giudiziario (in particolare delle Procure per il tramite di consulenti d‘ufficio ansiosi di raccontare le loro ascetiche visioni dei fatti), e, soprattutto, della politica il cui gioco delle parti l’ha ridotta, più o meno consapevolmente, ad un altoparlante del sistema giudiziario, al solo fine di millantare le potenziali malefatte della controparte, rimanendo così imbrigliata in un gioco perverso dove non è più possibile distinguere la vittima dal carnefice. In sintesi potrei dire che ho appreso, in modo pieno e consapevole, quanto asserito da qualcuno molto lungimirante circa l’importanza di formare gli Italiani. Temo che tutt’ora sia una battaglia così impegnativa che difficilmente potrà essere realizzata in pochi anni.

Correttamente molti parenti delle vittime speravano che le loro battaglie giudiziarie potessero almeno portare ad un innalzamento generalizzato della prevenzione dagli effetti del sisma. Non posso che associarmi all’ambizione che le vite umane spezzatesi quel 6 aprile, come in altri casi, continuino a vivere, anche se in un’altra forma, specchiandosi in tutti quei processi virtuosi in grado di portare ad una riduzione del rischio. Avrei avuto, e credo avrei, l’identica aspirazione dei parenti sopravvissuti. Per contro ritengo che, proprio per perseguire questa strada, servirebbe la forza e la capacità di aggregare e costruire processi virtuosi, che sappiano fare tesoro della dialettica e del confronto competente di tutti i maggiori esperti della materia, a cominciare da quelli che sono stati visti, almeno da alcuni, come gli antagonisti. Talvolta mi è sembrato di non rilevare queste finalità. Ho persino constatato, di volta in volta e forse nella maggior parte dei casi in buona fede, attacchi rivolti a persone che sono estranee ad ogni addebito, anche in termini giudiziari (oggi che ho conosciuto il mondo giudiziario mi sentirei di aggiungere fortunatamente), quali coloro che erano stati individuati come imputati. Temo purtroppo che non potrò essere compreso da molti ma, così come sono consapevole che il dolore dei parenti, che uccide dentro e quotidianamente, lo puoi conoscere, purtroppo, solo se hai la disgrazia di provarlo dal vero, anche il male che si prova ad essere accusati ingiustamente si può capire solo quando lo si vive.

Qualche tempo fa era uscita la notizia che uno dei politici che più si era speso per dare solidarietà ai parenti delle vittime era stato indagato per corruzione. Anche per lui (un lui indicativo del politico, il sesso invece può restare indefinito), nonostante abbia avuto modo di rilevarne la cordialità e l’ondivaga agilità del pensiero, vale quanto ho detto sopra circa il sistema giudiziario, sebbene in questo caso sembrerebbe che ci sia un’accusa fatta direttamente da chi ha cacciato i soldi. Ciò che posso dire è che in questa vicenda “Grandi Rischi” l’unica cosa che mi è parsa, alla luce di quanto emerso nell’aula del Tribunale, è che molti di coloro che più si sono adoperati per portare accuse, e che non erano parenti delle vittime, per un motivo o per un altro probabilmente avevano piacere che l’attenzione si focalizzasse sui sette imputati. In fondo incitare a scagliare la pietra è sempre facile e riduce la possibilità che qualcuno miri altrove.

Concludo questo sfogo con un dettaglio, per me emblematico, che gli avvocati raccontavano senza remora alcuna, indipendentemente dal ruolo di difensore o di parte civile, il giorno in cui venne emessa la sentenza finale. Data la rilevanza dell’evento, infatti, rimasero ad attendere la lettura del dispositivo della Corte contrariamente all’approccio solito per il quale è prassi lasciare qualche euro di mancia al personale delle cancellerie affinché, all’esito della decisione, si venga poi chiamati la sera a casa per conoscere quale sia stata la statuizione. Nel solito paese civile ritengo che, nell’era dei computer, nella Suprema Corte di Cassazione il dispositivo della sentenza dovrebbe essere redatto dalla Corte con strumenti informatici in grado di renderlo automaticamente pubblico. Non la sera stessa, ma un attimo dopo che sia stato sottoscritto. E’ invece prassi ammessa, consolidata e accettata, in primo luogo proprio in quel “santuario” dove operano i magistrati che impersonano la più alta rappresentazione della giustizia della nazione, che le cose vadano così. Solo alcuni anni fa emerse che anche diversi magistrati nel medesimo ambiente fossero sensibili al denaro. Mi domando come possa, il genitore di un figlio deceduto, avere la lucidità per credere all’innocenza di coloro che inizialmente un qualche magistrato ha persino condannato. Allo stesso tempo, però, c’è da chiedersi chi possa capire la grande ingiustizia subita dall’innocente che, suo malgrado, è stato sottoposto ad un meccanismo così perverso che, in spregio ad una sentenza di piena assoluzione, deve supinamente accettare che chiunque, nella finzione del dovere d’informazione ed appoggiandosi ai titoloni (vecchi e nuovi) dei giornali, possa a proprio piacimento in qualsiasi momento ritirare fuori dal cilindro vicende passate e chiuse, finendo di fatto con l’addossargliele nuovamente, come se il povero malcapitato di turno (passivo spettatore di un erroneo inziale coinvolgimento in inchieste poi finite diversamente) debba quasi essere nuovamente processato per appurare di nuovo i fatti, prima su base popolare e poi, “auspicabilmente”, di nuovo giudiziaria.

One thought on “Che cosa rimane della vicenda giudiziaria “Grandi Rischi” (di Claudio Moroni)

  1. Linea di pensiero che non può che essere condivisa al 100%, anche perché fattuale. Purtroppo, però, non vedo come se ne potrà mai uscire da questa situazione, in una società sempre più speculativa e cabarettista.

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