Questo post fa seguito alla parte prima, con lo stesso titolo, che inizia così:
“La condanna in primo grado dei sette imputati al processo dell’Aquila ha determinato, nell’opinione pubblica come in molti intellettuali, alcune convinzioni che l’assoluzione di sei di essi in secondo grado non ha contribuito, almeno per il momento, a modificare, e che hanno implicazioni importanti per il futuro della riduzione del rischio sismico.
Si tratta in particolare delle tesi che:
- gli imputati fossero stati condannati per non aver valutato “correttamente” il rischio sismico;
- gli eventi di cui al processo dell’Aquila siano stati determinati da una errata comunicazione del rischio.”
Le conclusioni della prima parte erano che:
- il rischio sismico in una larga porzione di Italia è – oggi – alto;
- non aumenta in modo significativo a causa di sequenze sismiche non distruttive, quale era quella dell’aquilano al 31 marzo 2009;
- l’emergenza sismica non è iniziata con la sequenza del 2009. Era già iniziata (da sempre), ed è permanente, anche se la maggior parte degli italiani non se ne vuole convincere;
- quest’ultimo è il vero problema, e dovrebbe essere il cuore della comunicazione del rischio.
In questa seconda parte si discute la tesi b).
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E veniamo alla comunicazione del rischio.
Una premessa. Il rischio sismico nell’aquilano era indiscutibilmente elevato ben prima dell’inizio della sequenza sismica, a causa dell’alta pericolosità sismica e dell’alta vulnerabilità; tuttavia pochi ne parlavano, non vi si dedicavano volumi, articoli, blog, interviste. Zero comunicazione del rischio a fronte di alto rischio? Nessuno andava in cattedra perché ne aveva parlato. Giaceva nei cassetti – poco diffuso – qualche report di convegni promossi dalle Amministrazioni locali a scopo essenzialmente catartico, come spesso avviene. Solo qualcuno portava avanti con fatica interventi di educazione nelle scuole. Continua a leggere