Ancora sul rischio sismico – parte seconda (Massimiliano Stucchi)

Questo post fa seguito alla parte prima, con lo stesso titolo, che inizia così:

“La condanna in primo grado dei sette imputati al processo dell’Aquila ha determinato, nell’opinione pubblica come in molti intellettuali, alcune convinzioni che l’assoluzione di sei di essi in secondo grado non ha contribuito, almeno per il momento, a modificare, e che hanno implicazioni importanti per il futuro della riduzione del rischio sismico.
Si tratta in particolare delle tesi che:

  1. gli imputati fossero stati condannati per non aver valutato “correttamente” il rischio sismico;
  2. gli eventi di cui al processo dell’Aquila siano stati determinati da una errata comunicazione del rischio.”

 Le conclusioni della prima parte erano che:

  1. il rischio sismico in una larga porzione di Italia è – oggi – alto;
  2. non aumenta in modo significativo a causa di sequenze sismiche non distruttive, quale era quella dell’aquilano al 31 marzo 2009;
  3. l’emergenza sismica non è iniziata con la sequenza del 2009. Era già iniziata (da sempre), ed è permanente, anche se la maggior parte degli italiani non se ne vuole convincere;
  4. quest’ultimo è il vero problema, e dovrebbe essere il cuore della comunicazione del rischio.

In questa seconda parte si discute la tesi b).

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E veniamo alla comunicazione del rischio.
Una premessa. Il rischio sismico nell’aquilano era indiscutibilmente elevato ben prima dell’inizio della sequenza sismica, a causa dell’alta pericolosità sismica e dell’alta vulnerabilità; tuttavia pochi ne parlavano, non vi si dedicavano volumi, articoli, blog, interviste. Zero comunicazione del rischio a fronte di alto rischio? Nessuno andava in cattedra perché ne aveva parlato. Giaceva nei cassetti – poco diffuso – qualche report di convegni promossi dalle Amministrazioni locali a scopo essenzialmente catartico, come spesso avviene. Solo qualcuno portava avanti con fatica interventi di educazione nelle scuole.
Poi c’è stato il terremoto, la vicenda “Grandi Rischi”, la condanna in primo grado e via, tutti a occuparsi di rischio e della sua comunicazione. Tutti bravi dopo la partita. La sentenza di secondo grado ha fatto chiarezza, soffiando via parecchie cortine fumogene, senza peraltro che nessuno di quanti avevano scritto volumi e articoli sentisse il bisogno – morale in primo luogo – di rettificare le proprie di sentenze. La Corte di Appello ha messo in chiaro che tutta la discussione su quanto detto nel corso della riunione del 31 marzo o in relazione a essa (verbali, testimonianze, interpretazioni ecc.) è aria fritta o, se preferite, discussione accademica; infatti, nulla di tutto ciò, ma proprio nulla, fu comunicato all’esterno, eccezion fatta per le interviste tenute dopo la riunione. Nessun passo di queste interviste è però stato – correttamente – citato da alcuna delle parti civili come influente sul comportamento delle vittime”. Se qualcuno non vuole ancora farsene una ragione, pazienza.

Viceversa, la sentenza di secondo grado ha condannato, in modo lieve, l’allora vice capo della Protezione Civile De Bernardinis, in riferimento alla famosa intervista “del bicchiere di vino”, rilasciata prima della riunione di esperti e mandata in onda dopo di essa. Si osservi che è solo a questa intervista che tutte testimonianze di parte civile hanno fatto riferimento. Pochi ricordano, peraltro, che, prima dell’ovunque ricordato “bicchiere di vino”, l’intervista proponeva la ovunque dimenticata “parte più importante”, così definita da De Bernardinis stesso, in tre concetti: Niente ansia (sempre nociva), sempre attenzione (perché l’Aquila è pur sempre in una zona di elevata sismicità), serenità (nel vivere la propria vita quotidiana).

Quindi, semplificando, questa intervista, o meglio la parte ovunque ricordata di essa, rappresenta – per quanto attiene al processo – la gran parte della comunicazione del rischio su cui sono stati spesi fiumi di parole, pagine, dibattiti ecc. Non entro qui nel merito del cosiddetto “nesso causale”, cioè della possibilità che tale intervista abbia significativamente e in modo esclusivo influenzato i comportamenti delle vittime (noto soltanto che il numero di vittime per le quali questa influenza è stata considerata è diminuito dalla sentenza di primo grado a quella di secondo).

Mi limito a osservare: scusate, ma questa non è comunicazione del rischio. Questa è comunicazione e basta, che affronta – magari maldestramente – il problema dell’aumento della confusione determinato dalle profezie del Giuliani e dal comunicato della Stati (rileggetevi queste ultime e poi ditemi se non sono più ultimative dell’intervista in questione). Comunicazione che ha avuto la sfortuna di avvenire a valle di queste ultime, anche se prima di tante altre rilasciate nei giorni successivi; comunicazione che è diventata, a viva forza, “autorevole comunicazione del rischio” poiché trasmessa dopo la riunione degli esperti, facendo credere agli ascoltatori meno attenti – e forse anche a quelli più attenti – che si trattasse dell’esito della riunione degli “esperti della CGR”, o della CGR tout-court. Facile, stando al mixer e prassi ormai più che diffusa: ad esempio, avete notato quanto minutaggio di un qualsiasi telegiornale nazionale contiene immagini e audio che siano realmente contestuali fra loro? Molto poco e in diminuzione progressiva.
E chi sarebbe in questo caso l’autore della comunicazione “del rischio”? De Bernardinis, o l’insidioso frame costruito dall’intervistatore, nel quale il vice capo del DPC si è peraltro fatto invischiare? Ovvero l’intervista stessa, che comprende un intervistatore e un intervistato? Quell’intervista di cui era stato chiesto il permesso di rilasciarla “dopo” la riunione a mo’ di conclusioni (permesso negato, ovviamente; ma trasmessa comunque – subdolamente – dopo)?

Occorre certamente capire se una qualsiasi intervista, trasmessa magari a ritagli e ascoltata mentre magari sei occupato a fare altre cose, possa rivestire un ruolo determinante (100% di comunicazione del rischio?). E se questo avvenga poiché in questo paese pochi hanno conoscenze di base tali da consentir loro, ad esempio: i) di affrontare il problema terremoto con calma e razionalità, ben prima della sequenza; ii) di soppesare, da se stessi, quello che un tecnico di un ente astrofisico racconta sui terremoti, oppure un subdolo cronista estrae da un funzionario dello stato. Un paese nel quale si parla di “bombe d’acqua”; o nel quale chiama in causa il “dissesto idrogeologico” quando – magari – si è semplicemente costruito nei letti dei torrenti, o nelle loro immediate vicinanze.
Resta il fatto che la discussione sulla comunicazione del rischio è stata centrata al 95% sulla famosa intervista. A me sembra la classica tempesta in un bicchiere d’acqua, perché si discute, di fatto, della comunicazione di un aumento, presunto e momentaneo, del rischio, ma non si discute della scarsa comunicazione del rischio permanente (che, sia detto per inciso, non si fa con una conferenza stampa a margine di una riunione di esperti). E questo corrobora in parte, sia pure involontariamente, l’idea che a L’Aquila, il 31 marzo 2009, si fosse in una situazione di emergenza sismica a causa del presunto aumento del rischio e non a causa del rischio permanente, che era alto anche prima.

Ora: chi si occupa di comunicare l’alto rischio permanente, quello che per i media non fa notizia, se non per comunicare di tanto in tanto che lo Stato non fa questo e quello? Solo pochi addetti ai lavori, sismologi, ingegneri, funzionari del DPC, che fanno sforzi ammirevoli con esiti ancora da valutare. Ad esempio, si è appena aperta la campagna annuale “io non rischio” (titolo discutibile, che penso uscito da compromessi operativi perché alla fine si deve pur sempre fare qualcosa – e su questo sono d’accordo), quest’anno anche in relazione ai problemi idrogeologici.
Dove sono tutti gli altri? Politici, amministratori, media, blogger, comunicatori, sociologi, antropologi? I media, come è noto, si attivano solo quando c’è una disgrazia o da sottolineare contraddizioni fra le persone; allora, e solo allora, escono le mappe sismiche, le interviste ai sismologi più o meno scomodi; prima no. Politici e amministratori hanno molto da fare. Evidentemente per quasi tutti siamo in un periodo “verde”.
Accidenti, no che non siamo in un periodo “verde” (omissione di comunicazione del rischio?). Siamo in una situazione di alto rischio, oggi come ieri come domani! È questo che va comunicato!

Una breve nota a margine.
Si sta facendo strada un nuovo, presunto modo di “comunicare il rischio”: l’OEF (operational earthquake forecast = previsione operativa dei terremoti) e il suo livello superiore OERF (operational earthquake risk forecast = previsione operativa del rischio sismico). OEF e OERF sono ricerche scientifiche di buon livello, come ce ne sono tante, e come tale da incoraggiare; si basano su uno dei possibili approcci e/o algoritmi di valutazione della variazione di probabilità di occorrenza di un terremoto in una zona e in un intervallo di tempo. Uno, non l’unico. Per inciso, OERF si limita a usare le variazioni proposte da OEF, in quanto vulnerabilità e esposizione sono costanti nel breve periodo.
Il fatto è che OEF osserva variazioni centesimali di probabilità, ossia quantità insignificanti dal punto di vista operativo (un po’ come cercare di capire se cadranno 300 o 310 mm di pioggia) ma, a dispetto di questo, viene addirittura proposto assieme a OERF come possibile strumento di protezione civile. I suoi risultati vengono mappati e presentati con caratteristiche analoghe a quelle delle mappe meteorologiche, puntando esplicitamente a suggerirne un uso analogo: una sorta di “fai da te” sismologico – se la probabilità è alta (alta quanto?) vado via di casa – destinato certo a far presa. Su chi? Su quanti non credono che dalle amministrazioni pubbliche possa mai venire una indicazione utile, e su quanti non credono che l’edificio in cui abitano possa essere reso sicuro, anche se a volte – magari – lo è già. Uno strumento potenzialmente ben visto da Amministrazioni propense allo scarico di responsabilità; da chi ama le semplificazioni e da chi le fabbrica.
Uno strumento di comunicazione del rischio oggettivo e democratico? Stiamo a vedere, senza dimenticare che la probabilità di occorrenza dei terremoti varia di pochissimo e il rischio locale, quello corrispondente al singolo edificio, presuppone la conoscenza dell’edificio stesso e delle sue caratteristiche; e così ricadiamo nel caso dell’Aquila. Ma ci ricadiamo anche in un altro modo: i proponenti del metodo sostengono – anch’essi – che all’Aquila ci fu errore di comunicazione del rischio. E questa affermazione garantisce loro che i media drizzino le orecchie e quindi offre, di fatto, un viatico per il loro metodo.

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