Gianluca Valensise, sismologo di formazione geologica, dirigente di ricerca dell’INGV, è autore di numerosi studi sulle faglie attive in Italia e in altri paesi. In particolare è il “fondatore” della banca dati delle sorgenti sismogenetiche italiane (DISS, Database of Individual Seismogenic Sources: http://diss.rm.ingv.it/diss/).
Qualche settimana fa ha rilasciato una intervista sul potenziale sismico della faglia del Gorzano, interessata dai terremoti del 18 gennaio 2017, i cui contenuti non coincidevano esattamente con il comunicato del Dipartimento della Protezione Civile (DPC), che riassumeva il parere della Commissione Grandi Rischi (CGR).
La materia è complessa e le valutazioni sul potenziale sismogenetico di una faglia, prima e dopo un evento sismico importante, sono particolarmente difficili. Abbiamo chiesto a Gianluca di offrirci il suo punto di vista, per aumentare la nostra capacità di comprensione, senza per questo volerlo porre in contrapposizione ad altri pareri, in particolare a quelli “ufficiali”.
Gli eventi del 18 gennaio 2017 non possono essere analizzati a prescindere dalla sequenza di eventi iniziata il 24 agosto 2016. Qual’è la tua opinione su questa sequenza, lunga e dolorosa?
La mia opinione, che dettaglierò meglio nella risposta alla domanda seguente, è che le sequenze lunghe e articolate siano una caratteristica connaturata con l’essenza stessa dell’Appennino. Le rocce che formano la crosta terrestre al di sotto dell’Appennino sono sempre sotto tensione, più o meno “cariche” e più o meno vicine al punto di non ritorno, ovvero al terremoto. Ma il terremoto può accadere “in un’unica soluzione”, come avvenne ad esempio in Irpinia nel 1980, quando una devastante scossa di magnitudo prossima a 7.0 fu seguita da un corteo di repliche trascurabile rispetto a quello che abbiamo visto negli ultimi sei mesi, o può avvenire per scosse successive di dimensioni grossolanamente confrontabili, come è successo con i tre terremoti di Amatrice (24 agosto, M 6.0), Visso (26 ottobre, M 5.9), e Norcia (30 ottobre, M 6.5: si veda l’immagine allegata); i quali, tra l’altro, hanno rilasciato una energia complessiva che è ancora inferiore a quella rilasciata dal solo terremoto del 1980.
Distribuzione delle scosse principali (magnitudo 5.4 e superiori) della sequenza del 2016-2017. L’immagine è stata tratta dal sito INGVTerremoti ed è aggiornata al 23 gennaio scorso: risultano quindi in piena evidenza le quattro forti scosse del 18 gennaio e le successive repliche (https://ingvterremoti.wordpress.com/2017/01/23/sequenza-in-italia-centrale-aggiornamento-del-23-gennaio-ore-1100/).
La differenza la fanno le caratteristiche geodinamiche della regione in cui il terremoto avviene, un aspetto su cui l’uomo non può certo incidere e che costituisce una caratteristica del pianeta su scale di milioni di anni. E purtroppo la fisica dei terremoti ci dice anche che un terremoto di magnitudo 6.0 può generare accelerazioni confrontabili con quelle di un terremoto di magnitudo 7.0, anche se per una durata di tempo più breve (pochi secondi contro alcune decine di secondi).
Il dramma di questa sequenza è tutto nello stile del rilascio sismico, con scosse principali forti e cadenzate che hanno progressivamente sbriciolato sia le case, sia il morale della popolazione, e un gran numero di repliche al di sopra di magnitudo 4.0 – circa 70 fino ad oggi – dando la sensazione di un “castigo infinito” che si vive ormai da sei mesi. Finirà, speriamo presto, e per molte generazioni a venire quei luoghi dell’Appennino centrale dovrebbero tornare a essere luoghi relativamente tranquilli.
Nonostante si tratti di una sequenza molto complessa, non è certamente stata la prima in Italia, e nemmeno nella zona in questione. Che cosa puoi dire in proposito?
In effetti quella di cui siamo testimoni diretti è solo una delle tante sequenze che hanno colpito l’Italia attraverso la storia. Senza scomodare le catastrofi sismiche di portata biblica di cui ci parla la nostra lunga storia sismica, basterebbe ripensare alla “sequenza di sequenze” che ha investito l’Appennino centrale e settentrionale nel secondo decennio del secolo scorso: iniziata con il forte terremoto di Avezzano del 1915, con le sue immani distruzioni e le oltre 30.000 vittime, e proseguita nel 1916 nella zona di Rimini, nel 1917 tra Monterchi e Citerna, nell’alta valle del Tevere, nel 1918 a Santa Sofia, nell’Appennino Romagnolo, nel 1919 nel Mugello e nel 1920 in Alta Garfagnana: tutti terremoti con magnitudo compresa tra circa 6.0 e circa 7.0. Vi è da chiedersi come l’Italia, che nella prima parte di quei sei anni maledetti si trovò anche a combattere un conflitto mondiale sanguinosissimo, sia riuscita a risollevarsi da quella catastrofe. Ce la faranno anche i nostri concittadini residenti nelle zone dell’Appenino centrale martoriate da questi terremoti, a patto che resistano alla tentazione di completare lo spopolamento di quelle zone, purtroppo già in atto da tempo per ragioni principalmente economiche. La differenza la faranno le istituzioni: e sarà la differenza tra la crisi sismica del 1915-1920, essenzialmente non gestita se non sotto il profilo puramente emergenziale, e la crisi odierna, che grazie ai media ha avuto quantomeno il merito di accendere i riflettori su una delle aree più marginali ma allo stesso tempo più affascinanti del nostro paese.
DPC, tramite la CGR, ha sostenuto che rimane la possibilità di un evento sismico molto importante, corrispondente, immagino, al massimo terremoto ipotizzabile nell’area. Tu ritieni viceversa che gli eventi del 18 gennaio abbiano in qualche misura ridotto questa possibilità e che sia ipotizzabile al più l’accadimento ulteriore, lungo la faglia di Campotosto, di uno o più eventi con una magnitudo simile a quella del 18 gennaio. Corretto?
Si, la CGR ha verosimilmente considerato la possibilità di una ripetizione del terremoto del 1703: un’altra “sequenza infinita” che con una serie di scosse fino a magnitudo 6.9 ha devastato almeno 80 km di Appennino tra Norcia e L’Aquila. La mia impressione tuttavia è che quella sequenza sia stata generata da un sistema di faglie diverso da quello che ha causato i terremoti del 2016-2017, come suggerisce la non coincidenza nella distribuzione del danno tra il 1703 e oggi: ritengo che allora si sia attivato un sistema di faglie pendenti verso nord-est, invece che verso sud-ovest come nei terremoti di questi mesi, e poste in posizione più occidentale, forse come proseguimento meridionale del grande sistema di faglie noto come “Etrurian Fault System”: un sistema che si allinea al di sotto della media e alta valle del Tevere, fino a Sansepolcro, e poi prosegue verso nord-ovest al di sotto del Casentino, del Mugello, della Garfagnana e della Lunigiana. Ebbene, io ritengo da un lato irrealistico che le faglie del lato occidentale, quelle che hanno causato i terremoti del 1703, siano già pronte per nuove forti scosse, semplicemente perché sono passati appena tre secoli a fronte di tempi di ricorrenza che sappiamo essere millenari. Dall’altro annoto che la porzione meridionale del sistema orientale, quella responsabile dei terremoti del 18 gennaio scorso (e di un terremoto di M 5.3 che avvenne il 9 aprile 2009), è molto frammentata ed è composta da faglie che riteniamo avere un limitato sviluppo sia in lunghezza, sia in larghezza del piano di rottura. Questa caratteristica spiegherebbe il verificarsi entro poche ore l’una dall’altra di quattro scosse di magnitudo non molto diversa (tra 5.0 e 5.5) il 18 gennaio scorso, e al tempo stesso avvalorerebbe la tesi che quelle faglie non siano in grado di “coalizzarsi” per dare un terremoto più forte, riproducendo su scala più piccola la differenza già rimarcata tra il terremoto del 1980 e la sequenza del 2016-2017.
Forse va ribadito che non stiamo parlando “previsioni” di terremoti, ma del possibile evolvere di una sequenza sismica complicata. Da questo punto di vista, cosa puoi dirci per quanto riguarda le zone immediatamente a sud e a nord dell’area coperta dalle repliche?
Certamente. Non stiamo certo facendo previsioni ma solo cercando di portare alle estreme conseguenze due dei principali ragionamenti che abbiamo sviluppato negli ultimi 20-25 anni.
Il primo ha un carattere dinamico e fa riferimento al trasferimento di sforzo tra una faglia che ha appena generato un forte terremoto e le faglie adiacenti: sforzo che sia aggiunge a quello che certamente già caratterizza queste ultime, potenzialmente spingendole alla rottura. Sappiamo che nei sistemi estensionali come quello che esiste lungo l’asse dell’Appennino questo trasferimento è massimamente efficiente nei confronti delle faglie allineate con quella che si è mossa per prima, e quindi ci aspettiamo che succeda esattamente quello che abbiamo visto tra il 24 agosto, il 26 e il 30 ottobre e il 18 gennaio, ovvero la progressiva attivazione di faglie simili e allineate (si veda l’immagine in allegato). Qualcosa che avevamo già visto nel 1997, con le due scosse di Colfiorito del 26 settembre e la successiva di Sellano del 14 ottobre; un meccanismo che possiamo pensare sia analogo a quello che ha controllato la sequenza delle tre forti scosse del 1832, 1854 e 1878 nella Valle Umbra, tra Bevagna, Foligno e Bastia; delle almeno tre forti scosse della già ricordata sequenza del 1703 tra Umbria, Lazio e Abruzzo; delle cinque forti scosse del febbraio-marzo 1783 in Calabria, e di innumerevoli altre sequenze. Oggi sono in molti a ritenere che in effetti il fenomeno non vada spiegato solo con un trasferimento di sforzo tra faglie adiacenti, ma anche con un trasferimento di fluidi. La ricerca su questo tema prosegue, ma il fatto che le faglie “si parlino” è lì, sotto i nostri occhi, anche se è opportuno non banalizzarlo con metafore giornalistiche del tipo “effetto domino” o peggio ancora “contagio sismico”, che ne negano i fondamenti fisici facendolo apparire solo come un capriccio del destino.
Il secondo ha un carattere descrittivo-reologico*, e prende le mosse dal fatto che oggi siamo in grado di ricostruire i grandi sistemi di faglia nella loro tridimensionalità. In modo approssimato, ovviamente, ma sufficiente a mettere in evidenza quanto siano grandi i volumi di roccia non fratturata, e quindi fratturabili da una faglia sismogenetica. Queste conoscenze, che spesso sono poco più di una semplice ipotesi, o meglio di una “educated guess”, come dicono i nostri colleghi di lingua anglosassone, ci possono aiutare a sostenere che nella zona X, ad esempio nella Marsica, le grandi faglie possono “pescare” fino a 12 km di profondità, mentre nella zona Y, ad esempio nell’area di Colfiorito, si arriva appena a 8 km. Sapendo poi che la lunghezza di un piano di faglia di norma è proporzionale alla sua larghezza, e che la magnitudo è proporzionale all’area del piano di faglia, ecco che le limitate dimensioni che si ritiene possano avere le faglie che si trovano al di sotto del Lago di Campotosto giustificano il fatto che in quell’area io non mi attenda terremoti di magnitudo superiore a 6.0.
* La reologia è la scienza che studia gli equilibri raggiunti nella materia deformata per effetto di sollecitazioni.
Tutta l’attenzione è oggi concentrata sulla zona colpita e sulle aree limitrofe. Ovviamente non possiamo dimenticare che in numerose zone d’Italia esiste, non tanto remota, la possibilità che avvengano terremoti anche forti, che non siamo in grado di prevedere in modo deterministico.
Purtroppo è proprio così. In Italia esistono centinaia di faglie sismogenetiche: poniamo per un attimo che quelle in grado di dare terremoti distruttivi, intendendo quelli da M 5.5 in su, siano 300. Se anche ognuna di esse si attiva anche solo ogni 1000 o 2000 anni, che è quello che in molti pensiamo, un banale calcolo mostra che ci possiamo aspettare che almeno una di esse si attivi ogni tre-sei anni. E in effetti la storia sismica italiana ci parla di terremoti da M 5.5 in su ogni 4-5 anni in media. Quindi non una possibilità remota, ma al contrario una eventualità molto concreta. Dove, quanto forte, quando? Sul dove e sul quanto forte ci stiamo attrezzando, devo dire, anche se saranno i posteri a valutare quanto bene abbiamo operato. Sul quando ovviamente non so esprimermi, anche perché essendo un umile geologo non ho la cultura che serve a cogliere quei segnali che potremmo scoprire essere prodromi di un forte terremoto. Una cosa però è certa: prevedere i terremoti è già difficile, ma sarà ancora più difficile se non continueremo a lavorare per capire “l’impalcatura sismica” dell’Italia; perché osservare fenomeni precursori sapendo di essere sulla verticale del punto in cui potrà innescarsi la rottura di una grande faglia sarà sempre più promettente che fare la stessa cosa in un qualunque altro punto del territorio.
È un argomento che centra solo parzialmente, ma secondo lei la sequenza del 1832-1854-1878 in valle umbra, che ha citato, è dovuto a faglie ovest immergenti, come quelle tipiche appenniniche o è da attribuire alla faglia tiberina est immergente? Grazie mille!
Caro Francesco,
se avrà la voglia e la pazienza di consultare il nostro database delle sorgenti sismogenetiche DISS (http://diss.rm.ingv.it/diss/) vedrà che la proposta a suo tempo formulata da me e dai miei coautori è quella di assegnare quei terremoti a faglie pendenti verso Nordest e poste al margine orientale della dorsale che separa la Valle Umbra dalla Val Tiberina. Io conosco bene la geografia di quei luoghi – soprattutto per motivi enologici, devo ammettere – un po’ meno la loro geologia. Tuttavia dalla distribuzione del danno che hanno causato sappiamo che quei terremoti furono piuttosto superficiali, il che è compatibile con una profondità della faglia compresa entro i 6-8 km, valori a loro volta compatibili con le conoscenze che si hanno sulla faglia Alto-Tiberina (ATF: ma forse qui si dovrebbe ormai dire MTF, Medio-Tiberina Fault). L’attività di queste faglie è poi ben compatibile con l’architettura a semi-Graben della Valle Umbra, che degrada da NE a SW, e con la struttura del drenaggio, che nelle pianure alluvionali è sempre un buon indicatore della deformazione in atto.
Ovviamente non si tratta di verità assolute, ma di ipotesi di lavoro, valide soprattutto per il 1854, l’evento più forte dei tre (Mw 5.6). Sulla capacità della ATF di generare forti terremoti e non solo sismicità di fondo si è discusso a lungo in questi anni. Io ritengo che almeno alcune porzioni della ATF rilascino terremoti nella parte più superificiale: se da un lato la geologia ci conferma che la ATF è una faglia attiva e di dimensioni tali da renderla in grado di generare forti terremoti, ebbene i terremoti che lei cita le cadono esattamente sopra e sarebbero difficili da giustificare invocando l’attività di altre strutture. Consideri che nel DISS si propone un meccanismo analogo anche per il terremoto di Monterchi-Citerna del 1917, un altro evento certamente molto superficiale.
Ma se l’ipotesi che abbiamo formulato è giusta resta da capire cosa può accadere tra Bastia Umbra e Città di Castello, ovvero lungo una porzione della ATF di circa 40 km: una struttura che ha rilasciato ben poca sismicità in epoca storica.
Ovviamente qualunque eventuale nuovo dato o spunto intepretativo sulla zona, geologico, storico o strumentale, sarà ovviamente benvenuto.
Grazie mille, davvero gentilissimo… avevo letto tantissimo al riguardo, ma tutti scrivevano che era da associare alla faglia ovest immergente, mentre la faglia tiberina creava solo micro-sismicità… è molto interessante siccome sono proprio di Bastia, e sono curiosissimo su questo argomento, c’è da dire che il terremoto del 1832 è stato parecchio distruttivo e il CFTI5 (anche CFTI4) lo riporta come Mw 6.3 sarebbe interessante se fosse da attribuire alla ATF, e sopratutto capire come mai la parte nord non abbia dato terremoti particolarmente distruttivi…
Ultimissime due domande velocissime, quindi terremoti dal calibro di quelli del 1703 (che avevo letto che la attribuiva sempre alla ATF) possono verificarsi lungo tutto il segmento della ATF? e ci sono stati per caso studi paleosismologici sulla ATF che farebbero pensare a grandi eventi sismici? (6.0/6.5+)
Caro Francesco,
infatti fino a non molto tempo fa la vulgata era questa: solo microsismicità sulla ATF, terremoti importanti sulle faglie antitetiche (ovvero pendenti verso SW). La questione che io pongo è semplice: la ATF la vediamo e la conosciamo bene, grazie soprattutto al lavoro dei colleghi dell’Università di Perugia, e alcuni terremoti importanti sono molto ben compatibili con essa. Viceversa, cosa sappiamo delle faglie pendenti verso SW, ovvero delle faglie che dovrebbero correre lungo il piede della catena, tra Spoleto e Assisi? Io dubito anche che esistano, ma se anche esistono, quale sarebbe l’evidenza della loro attività? Se generano terremoti anche importanti questa evidenza dovrebbe essere piuttosto chiara, e invece il segnale geomorfologico lungo tutta la ATF ci parla di un basculamento del paesaggio verso SW, il che suggerisce che sia la ATF il vero motore della deformazione estensionale, oggi.
Sui terremoti della zona devo però fare ammenda: nel post precedente ho scritto che il più forte è stato quello del 1854, mentre è evidente che il più forte è stato quello del 1832, con una Mw stimata ben superiore a 6.0.
Una battuta su Bastia, che conosco bene perché ho anche dei parenti che ci abitano (e mi ci fermo spesso per la mitica “Porchetta di Costano”). Bastia soffre di effetti di sito molto importanti, essendo costruita su un letto di depositi fluviali molto recenti: questi parenti si lamentavano del fatto di aver subito lesioni nei muri nel 1979, nel 1984, e poi ancora nel 1997… Nel 1832 subì un IX grado, contro il VII o VIII delle località circostanti. Forse è anche per questo che di storico è rimasto ben poco, a parte la mitica Bastia.
Infine, sui terremoti del 1703: per quanto mi riguarda la loro attribuzione è ancora piuttosto controversa. In genere la scossa del 14 gennaio viene attribuita a faglie della zona di Norcia, che sono state anche oggetto di indagini paleosismologiche, mentre io non escluderei l’attribuzione a un possibile proseguimento della ATF verso sud, oltre la Valnerina, dove finora non è stata ancora mappata. Non mi risulta siano mai state scavate trincee sulla ATF in senso stretto.
Ho già espresso un giudizio positivo sulla disanima divulgativa fatta qui su Tegris a proposito della recente sismicità italiana da parte di Valensise..
In particolare avevo apprezzato la sua critica alle locuzioni “effetto domino” e “contagio sismico” usate, mi sembra, da esperti del CNR. Infatti nel suo testo egli dice esplicitamente
“….ma il fatto che le faglie “si parlino” è lì, sotto i nostri occhi, anche se è opportuno non banalizzarlo con metafore giornalistiche del tipo “effetto domino” o peggio ancora “contagio sismico”, che ne negano i fondamenti fisici facendolo apparire solo come un capriccio del del destino….”
In realtà “effetto domino” risulta introdotto ed approvato dallo stesso Valensise in un’intervista rilasciata a Repubblica il 30 maggio del 2012. Il “contagio” invece appare in un’intervista dello stesso a LaStampa sempre nello stesso giorno.
Senz’altro un peccato veniale. Divulgando è facile incorrere in locuzioni imprudenti. Una conoscenza più quantitativa del problema permetterebbe un maggior rigore,
Valensise, forse non a caso, si definisce comunque un umile geologo.
E. Boschi, che ringraziamo, ha ragione sulle “locuzioni imprudenti”, anche se conosce meglio di tutti quanto sia difficile evitare che i giornalisti banalizzino gli argomenti. E sa anche quanto sia difficile correre loro appresso per verificare e approvare preventivamente i loro pezzi, dove a volte virgolettati e locuzioni semplificate vengono inseriti a forza.
Per quanto riguarda l’auto definizione che G. Valensise dà di se stesso, ci è gradito annotare che il suo pezzo è risultato il più letto nella storia di questo blog.
Interessante l’ipotesi che al oltre al trasferimento di sforzo tra faglie adiacenti si debba considerare anche un trasferimento di fluidi. Mi piacerebbe saperne di più.
Caro Popinga,
come puoi immaginare, da umile geologo io di queste cose ne so poco. Però il caso vuole che proprio ieri ho avuto un scambio per email con Ross Stein, il quale mi segnalava che un tale Stephen Miller è un sostenitore di questa teoria sul ruolo di fluidi, almeno dal punto di vista della rock mechanics:
https://www.researchgate.net/publication/281497796_A_full_GPU_simulation_of_evolving_fracture_networks_in_a_heterogeneous_poro-elasto-plastic_medium_with_effective-stress-dependent_permeability
Sono sicuro che una ricerchina sul tema farà uscire un mare di altra roba, ma ovviamente per capire di che si tratta bisogna avere un po’ di rudimenti sul comportamento dei mezzi poro-elasto-plastici.
Buona ricerca,
GV
Splendida illustrazione della sismicita Appennina, grazie; per chi vive vicino all’Appennino, e i terremoti li sente da sempre, è importante capire quanto sono approfondite e come si sono evolute le conoscenze su faglie e terremoti.
Interessante disanima di Gianluca Valenzise sulla recente attività sismica appenninica. Sarebbe un’ottima base per una discussione sui recenti progressi della Fisica della sorgente sismica di interesse non solo nazionale. I dati messi assieme dal Centro Nazionale Terremoti sono e indubbiamente saranno di fondamentale importanza nella comprensione generale del meccanismo focale.
Non si può però dimenticare che i vertici dell’INGV propongono modelli e interpretazioni dei terremoti che cozzano drammaticamente con l’osservazione sperimentale. Fa impressione che nessuna voce dai prestigiosi sismologi INGV, come Gianluca, si sia alzata con forza su un argomento (gravimoti e altro) capace di rendere poco credibile le attività dell’Istituto fino a mettere in discussione la sicurezza nazionale. Anche dal di fuori non si può non osservare una progressiva emarginazione dei sismologi da ruoli guida su argomenti su cui si è basato il grande sviluppo, la grande visibilità e là credibilità dell’ente alla cui creazione hanno generosamente contribuito tante personalità diverse con scopi unificanti.
Ciò premesso è mia convinzione che dopo la sequenza umbro-marchigiana 1997-98 e il terremoto aquilano 2009 la conoscenza dei modi di evolversi della sismicità appenninica è fortemente aumentata come dimostra la dissertazione di Gianluca così ben esposta.
La mia convinzione si spinge a dire che si potevano dare indicazioni chiare e ragionevolmente sostenibili sulla possibilità dell’attivazione del segmento L’Aquila-Colfiorito mesi o anni prima del 24 agosto 2016. Sono pronto a sostenere questa mia affermazione pubblicamente di fronte a chiunque.