Caro Marco,
sono una ricercatrice dell’INGV. Come molti colleghi ho letto con grande attenzione il tuo articolo sull’anniversario del Vajont e il parallelo che hai disegnato con la vicenda tristissima del terremoto de L’Aquila. Come alcuni colleghi, non resisto alla tentazione di scriverti: i punti che sollevi sono importanti, e mi piace leggere il tuo articolo come una apertura al dialogo e al confronto. Siccome di questo credo ci sia grande, urgentissimo bisogno, ne approfitto e ti scrivo.
Inizierò col dirti che non sono sismologa, e nella mia piccola attività di ricerca non mi sono mai occupata di terremoti: studio i vulcani. Anche per questo motivo, non voglio entrare nel merito della vicenda Aquilana. Come immaginerai, la mia posizione su quella vicenda è un po’ diversa da quella che hai espresso nel tuo articolo, e magari un’altra volta ne parliamo. Ma non mi voglio inoltrare nei dettagli del processo per non perdere il filo di alcune riflessioni che sono emerse leggendoti, e che mi sembrano importanti.
Mi piace pensare che il mio lavoro e il tuo un poco si assomiglino. Le nostre metodologie hanno poco a che fare con il teatro, ma anche noi, a modo nostro, costruiamo storie. Osserviamo il mondo reale, raccogliamo dati e poi cerchiamo quei nessi, quelle connessioni che trasformano tanti elementi separati in una storia coerente. Le nostre storie raccontano l’evoluzione del pianeta e devono contenere e conciliare tutte le informazioni disponibili. Se anche un solo dato non è coerente, la storia va riformulata, insieme alle nostre ipotesi. Quando il racconto ci convince, ne studiamo le implicazioni e immaginiamo come continuerà in futuro, o come potrebbe cambiare se cambiassero le circostanze in cui si dipana.
Come tutti i racconti, anche le nostre storie nascono per essere condivise. E non solo perché lo stupore e la bellezza della scoperta devono essere patrimonio comune. Vanno condivise perché dalla conoscenza discendono la consapevolezza e la possibilità di scelta. La società civile dovrebbe trarre il maggior vantaggio possibile dalla conoscenza scientifica, ma constato con tristezza che questo non sempre avviene. La comunicazione fra comunità scientifica e società civile non scorre fluida come dovrebbe.
Non sono così ingenua da credere che la colpa sia sistematicamente del giornalista (o dell’attore) di turno. Qualcosa non sta funzionando e credo sia nostro compito cercare di capire dove sta il problema ed esplorare modalità di comunicazione più efficaci.
Il problema non sta nel contenuto della comunicazione: raramente dalla comunità scientifica escono messaggi “sbagliati”, nemmeno nel caso de L’Aquila è successo. Ma la comunicazione scientifica spesso si basa su alcuni presupposti che credo fallaci e che rendono i nostri sforzi ingenui e poco soddisfacenti.
Il primo presupposto è che le nostre parole non possano essere fraintese.
Per uno scienziato la scelta di un termine preciso implica un significato preciso. Nella terminologia scientifica, ogni concetto deve essere determinato univocamente, non esistono sinonimi. Nell’uso corrente non è così: la ricchezza del linguaggio ci ha abituato a mille sfumature, a tanti modi diversi per dire la stessa cosa, e a tanti significati differenti per uno stesso termine. Quando il linguaggio scientifico viene ascoltato con le orecchie del linguaggio comune si può di caricare di sfumature non previste, che possono marcare un significato al posto di un altro, ben al di là delle intenzioni di chi parla o scrive. Questo spiega bene un fenomeno che abbiamo osservato: lo stesso comunicato scritto, recepito da alcuni come preoccupante, e da altri come rassicurante.
Il secondo presupposto, è che le nostre parole siano accolte in modo razionale.
Questa è la nostra dimensione naturale, se smettessimo di essere razionali il nostro lavoro perderebbe significato in ambito scientifico. Eppure chi ci ascolta non è vincolato all’ambito razionale e percepisce le nostre parole come vuole e come può. Così spesso si ascolta quello che si vuole sentire, quello che meglio si accorda con le nostre idee e le nostre credenze, o anche solo quello che fa meno paura.
Un terzo presupposto è che l’interazione con la società civile debba avvenire in un’unica direzione: noi abbiamo il dato scientifico e generosamente lo spieghiamo a chi ci ascolta. Gli amici che si occupano di comunicazione da tempo provano a convincerci che la comunicazione funziona quando avviene nei due sensi. Ci stiamo provando, ma la strada da fare in questa direzione è ancora lunga.
Nel nostro paese il livello di cultura scientifica generale è sfortunatamente molto basso: la scienza gode di grande fiducia che spesso però è cieca, fideistica. Ma la scienza non è in grado di fornire soluzioni salvifiche. Avanza per tentativi ed errori, evolve grazie al dubbio, e si muove sempre nell’ambito dell’incertezza. Il contributo che può dare alla società non è mai risolutivo: può fornire elementi di giudizio, ma le scelte spettano alla società civile.
Perché questi elementi di giudizio siano a disposizione di tutti, devono essere espressi in modo corretto ed efficace al tempo stesso. Ci serve trasformare le nostre eccellenti mappe di rischio in consapevolezza del territorio, in volontà viva di agire in sintonia con il pianeta, costruendo meglio, lasciando alla terra gli spazi che le competono (e che lei sa comunque riprendersi, senza troppi complimenti). Ci serve fiducia, e ci servono parole. Siamo ricchi di significati, ma non riusciamo più a trasformarli in terreno fertile, dove il sapere attecchisca e diventi parte integrante del paese reale.
Abbiamo bisogno di imparare a raccontare, di un mediatore culturale. Per questo sarebbe interessante, urgente, bellissimo venirti a trovare, imparare ad usare gli attrezzi del tuo mestiere per raccontare le nostre storie. Se hai voglia, modo e tempo, facci sapere. Ti verremo a trovare, con orecchie aperte e la curiosità insaziabile delle persone di scienza.
Un caro saluto,
Micol
pubblicata anche su http://micoltodesco.wordpress.com/