Alessandro Amato
Caro Marco Paolini,
ho letto il suo articolo su Repubblica del 22 settembre scorso (http://ingv.telpress.it//news/2013/09/22/2013092201858302769.PDF) con un forte senso di disagio. Ed è per questo, e per l’ammirazione che ho per il suo lavoro, che oggi le scrivo.
Nel suo articolo lei ha scritto del disastro del Vajont del 1963, proprio 50 anni fa: una tragedia umana immensa che segnerà per sempre la nostra storia, e che lei ha contribuito a radicare nella memoria degli italiani con il suo bellissimo spettacolo teatrale. Poi ha cercato di costruire un parallelo con cause e conseguenze di un’altra tragedia: il terremoto dell’Aquila.
Il paragone regge perché in entrambi i casi si è costruito, male, laddove non si sarebbe dovuto. Ed è questa la colpa che i processi avrebbero dovuto condannare e la lezione che avrebbero dovuto indicarci per il futuro. Solo che mentre nel primo caso così è stato, e alla sbarra sono finiti dirigenti, tecnici e consulenti della diga del Vajont, nel secondo, nel caso del processo alla Commissione Grandi Rischi, ci sono finiti anche alcuni scienziati del tutto incolpevoli rispetto alle scelte edili in una zona ad alto rischio sismico.
Lo so: il processo ha punito chi avrebbe fornito informazioni rassicuranti, con esito disastroso, alla popolazione aquilana. Ma queste informazioni non sono davvero mai venute da chi adesso si trova una condanna sul capo. Di certo non dai sismologi, che hanno compilato, in decenni di lavoro, la mappa di pericolosità sismica nazionale che dal 2004 è legge dello Stato: una delle leggi meno rispettate del nostro paese, dalla politica e da noi cittadini.
Se rileggiamo bene gli atti di quel processo, scopriamo che non esistono interviste rassicuranti dei partecipanti di quella riunione ad eccezione di una. Quella all’allora vicecapo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis, che pronunciò la famosa frase infelice sullo scarico dell’energia come fatto positivo. Ma quell’intervista era stata registrata prima della riunione per motivi di comodità del giornalista: lo si è ammesso anche durante il processo. Anzi, è stata spacciata per resoconto della riunione stessa, all’insaputa dei partecipanti.
Gli scienziati, invece, non hanno partecipato a nessuna conferenza stampa né sono stati mai intervistati sugli esiti della riunione. Lei scrive che l’imperativo per tutti era che bisognava rilasciare interviste: ma ha davvero mai letto, o visto, rassicurazioni da parte degli altri partecipanti alla riunione? Ha mai visto, per dire, un’intervista a Giulio Selvaggi che il 31 marzo 2009 rassicura la popolazione aquilana?
Ma poi: quali dobbiamo credere che fossero gli esiti di quella riunione tecnica? Consideri che dopo il terremoto dell’Aquila in Italia ci sono state decine di terremoti di magnitudo simile a quello del 30 marzo, cioè quello precedente la grande scossa dell’Aquila, che aveva convinto la Protezione Civile a convocare la Commissione. Ognuno di questi terremoti avrebbe potuto essere seguito da uno distruttivo, come accadde il 6 aprile del 2009, ma non è mai successo. Non solo: nessuno è stato nemmeno seguito da un’altra riunione della Commissione Grandi Rischi, semplicemente perché si è riconosciuto che non serve a niente. Quello che gli scienziati hanno da dire sulla protezione dai terremoti in questo paese, lo hanno già detto e scritto nella carta sismica, e lo continuano a ripetere. E lo ha scritto anche lei nel suo lungo articolo: siamo tutti un po’ responsabili della cura del nostro Paese. Non serve cercare responsabili per consolarci e assolverci. Tocca anche a noi.
Caro Marco, mi chiedo che cosa allora avrebbe scritto se nemmeno dopo la scossa del 30 marzo fosse stata convocata la Commissione Grandi Rischi. Il terremoto del 6 aprile sarebbe arrivato lo stesso. Ci sarebbero stati morti e la città sarebbe stata distrutta. Avrebbe comunque attribuito questa tragedia all’uomo? Sì, credo proprio di sì. E avrebbe fatto bene. Ma probabilmente avrebbe puntato il dito contro quei politici e quei costruttori che hanno permesso di costruire edifici come la casa dello studente. Anche all’Aquila ci sono state illegalità e incurie, e anche all’Aquila è giusto cercare i colpevoli e punirli, indicando una nuova direzione al paese. Ma quel processo è frutto di un errore di parallasse, e lo commettiamo anche noi se accettiamo di fermarci lì. Con la conseguenza di dare agli aquilani dei capri espiatori e non dei colpevoli, e a noi tutti una lezione sbagliata: aspettati che qualcuno ti avverta del rischio una settimana prima.
Mi chiamo Alessandro Amato, come avrà capito sono un sismologo anch’io. Sono stato a capo della sala sismica nazionale per sette anni e per sette anni mi sono trovato nella posizione di alta responsabilità nella quale si trovava il collega Giulio Selvaggi in quei giorni sfortunati. Avrei potuto esserci anch’io, adesso, condannato a sei anni di galera. Perché non avrei potuto comportarmi in maniera diversa da come Giulio si comportò allora. In coscienza, da scienziato, le assicuro che nessuno dei miei colleghi avrebbe fatto niente di diverso, o di migliore, così come a nessuno allora è stato chiesto di parlare direttamente con la popolazione aquilana e a nessuno di noi salterebbe mai in mente di tranquillizzare nessun italiano in nessun momento. Con la gente ci parliamo spesso: con campagne di informazione in tutta Italia, con le scuole che vengono a visitare il nostro istituto quasi ogni giorno, con la costante presenza sul web, e da ben prima del 2009. Mai abbiamo tranquillizzato ma piuttosto abbiamo cercato sempre di trasmettere la consapevolezza del rischio.
Siamo ricercatori, ma a differenza dei nostri colleghi astronomi o fisici delle particelle, noi sismologi abbiamo un forte e continuo contatto con la politica e con la società, da cui non ci sottraiamo. E vogliamo continuare ad averlo. Sappiamo che il nostro è un compito importante e delicato e cerchiamo di farlo al meglio delle nostre capacità e con i limiti della nostra conoscenza. Proprio perché siamo consapevoli di questi limiti, se ci chiedete cosa fare domani o fra una settimana vi risponderemo che dovete vivere in luoghi sicuri, sempre. E niente di quello che facciamo è chiuso in un cassetto, ma è sempre stato reso pubblico e accessibile. Come la carta di pericolosità sismica nazionale, che nel 2009 era già riferimento normativo per lo Stato dal 2006 e era la base per la nuova normativa tecnica per le costruzioni, quella sì tenuta nel cassetto dal 2008 e che ha dovuto attendere il terremoto dell’Aquila del 2009 per entrare in vigore. Quella stessa politica malsana che, caro Marco, oggi come nel caso del disastro del Vajont, sembra di nuovo capace di uscirne illesa.
Nel salutarla, colgo l’occasione per invitarla a vedere la nostra sala sismica nazionale. L’appuntamento lo decida pure lei: noi siamo aperti giorno e notte, 365 giorni all’anno.
Un caro abbraccio,
Alessandro Amato