Il 22 ottobre 2012, verso le ore 17, il giudice Billi del Tribunale dell’Aquila, dopo poche ore di camera di consiglio, lesse, a voce bassa e a testa bassa, la dura sentenza di condanna degli imputati al processo “Grandi Rischi”, che inaspriva addirittura la pena richiesta dal Pubblico Ministero Picuti, portandola da 4 a 6 anni di reclusione. Il testo della sentenza (poco meno di 950 pagine) sarebbe stato poi depositato il 18 gennaio 2013.
Il civilissimo atteggiamento della parte di pubblico che vedeva riconosciute le proprie ragioni accompagnò l’uscita dal prefabbricato degli imputati presenti, dei loro amici e degli avvocati della difesa. Dopo lo scatenarsi della caccia alle interviste da parte dei media presenti in forze, nell’ampio piazzale si sciolsero i capannelli – compreso quello, un po’ appartato, formato dal giudice, dal PM e da alcuni parenti delle vittime del terremoto – e la giornata si concluse con gli sms, i lanci di agenzia, le conversazioni ai cellulari e i rientri a casa.
La lettura della sentenza, tre mesi più tardi, confermò le previsioni: il giudice aveva accolto, praticamente per intero, l’impianto accusatorio del PM. Un impianto secondo il quale l’accusa principale non era certo quella che, nell’occasione della riunione del 31 marzo 2009, gli imputati non avessero “previsto il terremoto”; bensì che avessero “rassicurato” la popolazione, modificando il comportamento di 29 persone che sarebbero così state indotte a restare nelle loro case in occasione del forte terremoto del 6 aprile. E che l’avessero fatto sostanzialmente per negligenza (e addirittura incompetenza, sottovalutando il rischio), e/o per aver aderito al compito che sarebbe stato loro assegnato da Guido Bertolaso, allora capo del Dipartimento della Protezione Civile.
Questo argomento, estraneo al rinvio a giudizio, prese corpo nel corso del processo in relazione alla “pubblicazione” di una telefonata di Bertolaso all’allora Assessore Regionale Stati, avvenuta il 30 marzo 2009, intercettata nel corso di indagini riguardanti altre imputazioni e resa pubblica – more italico – durante il processo, nel corso del 2012. Verso la fine di marzo 2009, nel persistere dello sciame sismico in atto nell’Aquilano e nel rincorrersi di voci di un possibile, imminente terremoto nella zona di Sulmona, generate dai messaggi di un ricercatore indipendente, la stampa locale pubblicò messaggi “tranquilizzanti” attribuiti alla Protezione Civile della Regione Abruzzo. Il 30 marzo Bertolaso, irritato per questi messaggi, nella telefonata in questione aveva “richiamato all’ordine” la Stati e la aveva informata di aver disposto una riunione della Commissione Grandi Rischi all’Aquila (fatto abbastanza irrituale) per il giorno successivo.
Non fu certo un processo alla Scienza con la S maiuscola; quella scienza un po’ snob che pervade ancora l’immaginario collettivo dell’italiano medio, e della quale i ricercatori imputati, funzionari pubblici – ovvero “civil servants” che hanno dedicato buona parte della loro attività alla valutazione e alla riduzione del rischio sismico – non fanno certo parte. Però da molti venne vissuto come tale. Anche perché, se non fu un processo alla scienza, riesce difficile capire perché buona parte del dibattimento, dei testimoni del PM, della sua requisitoria e della sentenza stessa siano dedicati ad aspetti squisitamente scientifici. E in questi aspetti requisitoria e sentenza si muovono in modo scientificamente disinvolto, considerando ad esempio alcuni argomenti (articoli ecc.) e ignorandone altri.
Numerose pagine, in diversi ambiti e lingue, sono state scritte a valle della sentenza. Ne hanno parlato, discusso e commentato, con diverso spessore e competenza, articoli, blog, libri e trasmissioni televisive. Fin da subito, tuttavia, si è percepita l’impressione che la sentenza, con il suo impianto, il suo percorso, il suo ricco corredo di citazioni dovesse inevitabilmente, per il semplice fatto di essere “sentenza”, rappresentare la verità. I media, ovviamente, hanno fatto la loro parte anche in questo. Un esempio chiarissimo è venuto da una nota trasmissione televisiva che, andata in onda solo due giorni dopo la pubblicazione della sentenza, ne ha riproposto lo stesso percorso, trattando gli aspetti scientifici con analoga disinvoltura. E poi basta leggere i blog e i relativi commenti, parlare con persone anche non prevenute, cercare uno spazio per presentare un punto di vista alternativo: porte chiuse, che cosa volete, la verità è chiara.
Gli interventi dei media sul processo si parlano, si ispirano reciprocamente e si copiano; ciascuno di essi rappresenta “another brick in the wall”, un muro che sta rinchiudendo i ricercatori e la loro verità. Occorre impedire che questo muro venga completato; possibilmente va abbattuto. Questa sentenza non deve fare “giurisprudenza” per due buoni motivi; perché condanna ingiustamente i ricercatori e perché riporta molto indietro l’orologio della riduzione del rischio sismico.
Occorre tornare a discuterla, analizzarla nei dettagli, contestare le semplificazioni e le ricostruzioni parziali proposte a piene mani dai media. La sentenza stessa – con le sue forzature, i percorsi arditi, le “excusationes non petitae”, ecc. – di margini di dubbio e di spunti per commenti ne offre molti. E poi oltre la sentenza ci sono anche i materiali istruttori e le evidenze proposte dalle difese, spesso ignorati dal giudice e dalla maggior parte dei commentatori.
E, infine, occorre che non passi nei cittadini il messaggio che l’unica possibile difesa dai terremoti consista in una informazione e/o un allarme appropriato in occasione di uno sciame sismico. Per la verità la sentenza non spiega bene che cosa avrebbero dovuto fare i ricercatori; ma non era suo compito, certo. Forse però non era nemmeno compito suo sostenere che:
«In tema di valutazione e di mitigazione del rischio sismico, l’affermazione secondo la quale “l’unica difesa dai terremoti consiste nel rafforzare le costruzioni e migliorare le loro capacità di resistere al terremoto” appare tanto ovvia quanto inutile. Tale affermazione è ovvia perché nessuno può contestare che un fabbricato edificato nel rigoroso rispetto delle normative antisismiche costituisce il migliore strumento di riduzione del rischio. Tale affermazione è inutile perché fornisce una indicazione non attuabile in concreto e pressochè impraticabile».
Forse – anche in questo – il giudice si è allargato un po’ troppo; forse su suggerimento dei consulenti. Di certo non ha valutato la portata del messaggio che ha lanciato ai cittadini italiani.
PS. Fortunatamente nell’area di Istanbul non devono averlo ascoltato, visto che sono stati varati, e sono già in atto, consistenti piani di demolizione obbligatoria e ricostruzione di edifici verificati insicuri dal punto di vista sismico.