Caro Paolini, nel tuo articolo del 22 settembre su “Repubblica”, rintracciabile all’indirizzo
http://ingv.telpress.it//news/2013/09/22/2013092201858302769.PDF
scrivi – a proposito del processo alla cosiddetta “Commissione Grandi Rischi” e fra altre cose – che le “proteste per una sentenza che metteva in discussione l’operato della scienza, etc.” ti avevano dato fastidio e intristito “perché sembravano così simili a quanto è successo al tempo del Vajont”. Ci sono rimasto male e ti voglio dire che a me ha intristito leggere la tua analisi sulla vicenda di quel processo; se hai pazienza te lo spiego.
Ma prima lasciami dirti chi sono: un sismologo in pensione da poco, che ha condiviso moltissimo della propria vita lavorativa – compreso il 2009 – con i ricercatori condannati, colleghi ed amici. Sono anche un tuo “fan” accanito, ho seguito molti dei tuoi spettacoli sul Vajont e altri, compreso quello per me più memorabile che hai presentato al Teatro Lirico di Milano tanti anni fa, al termine del quale hai raccomandato al pubblico di passare “incazzato” per la vicinissima Piazza Fontana. Non ho mai avuto la fortuna di conoscerti di persona, fortuna che ho avuto ad esempio con Paolo Rumiz – con il quale hai viaggiato in treno su e giù per l’Italia – che ho avuto il piacere di accompagnare per un paio di giorni quando viaggiava “per terremoti”, su è giù per l’Italia.
E pensa che, approfittando di una comune conoscenza umbra, avevo avuto l’idea di proporti di costruire insieme un lavoro su una vicenda sismica del passato (o anche del presente, ma prima dell’Aquila), per inviare al pubblico un messaggio nuovo – di quelli che sai mandare tu – sulle responsabilità dei disastri sismici. Ma poi avevi fatto “I-TIGI” (su Ustica, per chi non se lo ricorda), e avevi fatto sapere che non ti andava di concentrare il tuo lavoro solo sui disastri: e ti capisco bene.
Ora, quello che più mi rattrista è che nell’articolo sembri fare tuoi, in modo speditivo, sia gli argomenti della sentenza che quanto su di essi è stato costruito prima e dopo. Una sorta di teorema, apparentemente robusto, che elimina volutamente molte delle argomentazioni di segno opposto. Certo, i miei amici condannati e i loro colleghi che si battano per un esito diverso del processo di appello hanno qualche problema in questi giorni. Difficile non schierarsi con quanti sostengono che “le sentenze non si discutono, si applicano” (ogni riferimento ad altre sentenze di cui si parla in questo periodo non è casuale….). Tuttavia la sentenza che li riguarda non è definitiva e credo sia legittimo sforzarsi di presentare le opinioni e i punti di vista alternativi, in vista appunto del processo di secondo grado.
Mi rattrista perché il tuo lavoro sul Vajont, oltre che magistrale dal punto di vista dello spettacolo, lo era prima di tutto da quello dell’approfondimento scientifico e della ricostruzione storica. Era, in buona sostanza, rigoroso, molto di più, addirittura, di quanto si riusciva a fare, al tempo del Vajont, nell’ambito dei movimenti di opinione in ambito scientifico, quali ad esempio “Geologia Democratica”.
Consentimi di dirti che questo rigore sembra mancare nella tua analisi odierna (dove scrivi “vediamo brevemente……” in particolare). Certo, stai scrivendo un articolo e non un libro oppure una piéce. Ma è il paragone stesso fra i due casi e i due processi che trovo inquietante, al di là del fatto che si sono celebrati entrambi all’Aquila (a proposito, non pensi anche tu che, come nel caso del Vajont, anche per il processo ai ricercatori ci sarebbero i presupposti di trasferimento per “legittima suspicione”?).
Non dovrebbe sfuggirti, infatti, che il tipo di funzione delle persone condannate è profondamente diverso; che i miei colleghi, a differenza dei condannati del Vajont, non avevano progettato edifici collassati o danneggiati e non facevano consulenze per chi aveva costruito la città. E molti altri aspetti, che mi ripropongo di trattare in questo blog.
E poi, il problema della comunicazione, non quella diretta, come la tua, ma quella dei media, in cui a volte – o spesso – uno dice una cosa e ne esce un’altra. E tu, secondo me, ti lasci guidare dall’immagine dei ricercatori (gli scienziati, la scienza) che i media propagano; soprattutto in questo caso, perché altre volte sono più rispettosi se non addirittura adulatori. Ricercatori, “scienziati”, baroni universitari, un po’ snob e che scomodano addirittura Galileo. Mentre io penso, viceversa, che ai miei colleghi, a questi “civil servants” di cui mi onoro di aver fatto parte, fatti oggetto di critiche e sbeffeggiamenti, accusati di negligenza e per questo condannati in primo grado, vanno restituiti in primo luogo l’onore e la dignità e, in secondo grado, anche l’innocenza.
Ma il tuo intervento tocca anche aspetti largamente condivisibili (Marco Paolini si interroga sulle responsabilità di scienza – ok, ne abbiamo parlato – media e politica). E allora, per il rispetto e l’ammirazione che ho per il tuo impegno e il tuo lavoro, mi viene da farti una proposta. Consentimi di venirti a trovare, di parlarti. Oppure vieni a trovarci, noi ricercatori dei terremoti, in attività o in pensione: parliamone. E magari facciamo insieme un percorso di ricostruzione che potrebbe portare, perché no, anche a un’opera di teatro delle tue. Perché sai, sull’Aquila potremmo mettere insieme molte cose: dalle vicende storiche del 1700 a quella più recenti, a tutte le valutazioni del rischio sismico fatte e dimenticate, alle legislazioni ignorate, alle profezie che attirano e vengono credute proprio per l’immagine – tipicamente italiana – della scienza para-miracolosa. Fino ai mesi prima del terremoto, per spiegare che cosa facevano i sismologi e gli ingegneri sismici, quotidianamente, per diminuire davvero il rischio sismico. Sismologi e ingegneri che lavoravano – come quasi sempre – nell’indifferenza generale, che non attendevano di farlo in una riunione un po’ irrituale di una Commissione Grandi Rischi allargata, durante una sequenza sismica, nella quale si ritiene ancora che si sarebbe dovuto/potuto valutare il rischio sismico e, di conseguenza, salvare delle vite.
Se ti va proviamoci. Sarebbe un onore.
Massimiliano Stucchi