L’Aquila, molto più di un’esperienza di vita, una vera sconfitta per la razionalità e la giustizia (Claudio Moroni)

Claudio Moroni

Dei sette condannati non avevo mai avuto il piacere di conoscerne solo tre, se non come figure quasi “mitologiche” sulla scorta dei loro articoli e convegni, degli altri conoscevo nei dettagli l’elevatissima competenza e le qualità umane. Il PM, senza dubbio per deriderli, ha detto che erano i migliori sette uomini di cui disponeva la nostra povera Italia. La prosopopea tipica dell’ambiente giudiziario, e l’ambizione del successo che immagino colpisca qualunque uomo nell’esercizio della sua professione, ha persino impedito, allo stesso ed ai suoi collaboratori, di percepire che fossero veramente persone di una levatura fuori dal comune. Le graduatorie spesso sono misere e ingiuste, ma come lo stesso PM ha affermato nella sua requisitoria, l’importante era condannare, tra i tanti individui che quel giorno hanno assistito alla famigerata “Riunione della Commissione Grandi Rischi”, solo i migliori tra quelli che erano stati presenti in quella sala, non chi ne facesse veramente parte (d’altronde non ve ne sarebbe stato il motivo).

Molti sono rimasti stupiti della sentenza, molti altri (quelli che avevano un diretto interesse) invece sono stati felici, se non altro per appagare quella frustrazione che ovviamente nasce quando la natura fa il suo corso a dispetto dell’umana illusione di dominarla. Io appartengo a quella schiera di persone che, avendo assistito all’intero processo (non come ho sentito dire nella trasmissione “Presa diretta” di Rai3 che lo ha dichiarato sebbene avesse mandato il suo inviato soltanto in quella decina di udienze più “accattivanti” quali la requisitoria del PM o le arringhe delle difese), sono rimaste basite e sconfortate che in un’aula di giustizia, di fatto, si facesse politica populistica. Non lo avevo mai creduto possibile e, soprattutto, ero stato sempre e solo dalla parte dei Giudici. Ho avuto modo di ricredermi e di comprendere appieno che quanto scriveva De Andrè, o il povero Vecchioni (che alcuni anni orsono si ritrovò a trascorrere diversi giorni da detenuto, essendo andato in ferie quello stesso magistrato che dopo l’arresto lo avrebbe dovuto interrogare e, conseguentemente, scarcerare), non rappresentavano i comportamenti di sparute eccezioni che, seppur possibili, io ritenevo rarissime ed estremamente improbabili, più che mai in un processo di tale rilevanza.

Mio malgrado, come tutti gli italiani, nel percorso umano dell’accrescimento mi sono anch’io abbeverato della cosiddetta cultura del sospetto, quella che la stampa, e forse non solo quella, coltiva ed instilla inesorabilmente nelle menti dei poveri lettori fidelizzandoli a tal punto da creare dei tifosi illusi di saper discernere il vero dall’eccesso, ignari che spesso sia la stessa notizia ad essere infondata. Le storie, come dei reality, vengono costruite rendendo congruenti tempi, atti e fatti che invece nulla avrebbero tra loro in comune. Il tutto consolidato, per l’appetitoso pubblico delle arene sempre più fidelizzato, dalla inequivocabile “verità” confermata con le eventuali intercettazioni, opportunamente travisate e ben collocate nel montaggio degli avvincenti copioni, che a quel punto non lasciano più nessuna traccia di dubbio in chicchessia.

Sono un ingegnere, uno di quelli cresciuti in laboratorio a studiare ed imparare come si possano costruire edifici migliori e più robusti. Uno che ha girato l’Italia cercando di formare i tecnici affinché non continuassero a trascurare il terremoto nei loro calcoli e non si limitassero a garantire la qualità dei progetti solo sulla carta, e tutto questo ben prima del 2009. Con la condanna dei “magnifici 7” ho perso la speranza che ci possa essere un’Italia migliore. Senza alcuna velleità di un paragone personale tra me e la persona di tutt’altra levatura che proferì tali parole in un altro tragico momento per l’Italia tutta, ed in special modo per chi crede nella giustizia, anche io, all’atto della sentenza, ho pensato “è finito tutto”. Un finto processo mirato a colpire le persone valide, preparate e rigorose, ha gettato delle basi solide per sancire definitivamente la vittoria della mediocrità e della superficialità rispetto alla competenza ed alla qualità. Nel teatro del Tribunale, il PM sollecitava il giudice a seguire la sua tesi così da essere “il primo nella storia”, ad aver fatto una simile sciocchezza, aggiungo io.

Non so quanti leggano questo blog e, soprattutto, se questo possa suscitare in qualcuno la voglia ed il coraggio di dedicare veramente del tempo a capire come siano andate le cose e quale ingiustizia umana e morale, prima che giudiziaria, sia stata commessa in quell’aula. Oggi, per altri motivi (che senza questa traumatica esperienza avrei sostenuto appieno), va di moda lo slogan che “Le sentenze si rispettano e si applicano”. Dopo quanto personalmente osservato, ritengo doveroso che quanto meno le sentenze possano essere discusse, per il dovuto rispetto dei condannati, che in primo luogo sono degli esseri umani, per la democrazia, ovvero per quel principio cardine rispetto al quale gli stessi sarebbero stati condannati, e per l’intelligenza umana, che se ci consente di non ritenere più l’investitura dei Re un volere divino, non può continuare ad arrampicarsi sull’infallibilità dei giudici per portare avanti biechi interessi di parte.

Forse colpevolmente ma, per la ritrosia a portare in piazza il mio personale affetto per coloro che sono stati colpiti da tale sventura, fino ad oggi ho finito con l’astenermi dal rappresentare persino il mio personale dissenso alle accuse mosse ed alle motivazioni con cui il giudice ha inteso comminare una condanna che, per quanto emerso anche in dibattimento, e senza scomodare la razionalità, non posso che definire assurda ed incomprensibile ad una qualsiasi analisi intellettualmente onesta, per l’assoluta divergenza tra le ricostruzioni e come effettivamente si sono svolti i fatti. In un ambito giudiziario, che mio malgrado ho dovuto imparare a capire, si direbbe che mancano tutti gli elementi necessari per una condanna: quello fattuale, il quadro probatorio, è assente di nesso causale e si è privi di una qualsivoglia legge di copertura degna di questo nome (non una inventata ad hoc). Ovviamente, basterebbe l’assenza di uno solo di questi elementi perchè, per il nostro ordinamento, fosse dimostrata l’innocenza e, quindi, la non sussistenza delle condizioni minime necessarie per condannare un qualsiasi cittadino. Qui, pur mancando non uno ma tutti questi elementi si è riusciti ad andare oltre il più elementare rispetto della legge, proprio da parte di chi, costituzione alla mano, non avrebbe altro compito se non quello di garantirlo.

Continuo a credere nella giustizia e nel fatto che nei successivi gradi di giudizio ci possano essere Giudici interessati a fare giustizia ed a non essere attratti dall’esigenza di trovare un colpevole anche laddove non c’è, così da soddisfare il popolo e, perdonatemi la cattiveria, forse anche quel pizzico di egocentrismo e superbia che nasce in chi per seguire il percorso in cui si è incamminato è orgoglioso della capacità di argomentare quanto necessario per far apparire che l’asino stia volando.

2 thoughts on “L’Aquila, molto più di un’esperienza di vita, una vera sconfitta per la razionalità e la giustizia (Claudio Moroni)

  1. Condivido tutto il suo sconcerto e la sua disillusione.
    Da semplice cittadina ho approfondito fatti e concetti discussi, ho letto in buona parte le motivazioni della sentenza – ebbene non per intero, perché credo possibile riconoscere un prodotto di scarso spessore nel momento in cui gli assunti su cui si basa rivelano superficialità e stravolgimento che sia dei fatti, come delle parole che di concetti, in questo caso scientifici – e sono rimasta scioccata. Con una sentenza dello Stato si sono sanciti ad un tempo ingiustizia, arroganza e ignoranza, dando un ulteriore, autorevole contributo al regresso di questo Paese.

  2. Veramente, quella sentenza e’ un insulto all’intelligenza umana: per quanto il giudice e il PM tentino di mascherarla con elaborati artifici retorici e prolisse disquisizioni sul concetto di rischio e probabilita’ (peraltro completamente errate, si veda il concetto di “tempo di ritorno” utilizzato a sproposito come se un processo stocastico fosse un fenomeno periodico), si tratta comunque di una sentenza che ha condannato 7 persone per non avere previsto un terremoto. E una idiozia di questo genere, anno 2013, non e’ tollerabile. Sono persino sopportabili dei giudici prevenuti e politicizzati, ma dei giudici asini, questo proprio no.

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