Uno dei tanti messaggi devianti che l’esito e la sentenza del processo “Grandi Rischi“ ha diffuso a piene mani è che la riunione incriminata della Commissione, tenutasi il 31 marzo 2009, fosse stata convocata in una fase di “emergenza sismica”, legata in qualche modo al perdurare dello sciame da alcune settimane.
Naturalmente questa immagine si è formata concretamente solo dopo il terremoto del 6 aprile, quando per molti – con il senno di poi – è stato facile fare due più due:
• sciame sismico come precursore (ignorato)
• valutazione del rischio approssimativa (fatta da sismologi pasticcioni)
• comunicazione lacunosa o comunque insufficiente (da parte di chi?)
• rassicurazionismo al servizio del potere (sudditanza psicologica?)
Ma in che termini è lecito parlare di emergenza sismica, argomento attorno al quale oggi si spendono libri, tesi di laurea, convegni, corsi etc.? Quando comincia l’emergenza sismica? E, soprattutto, a partire da quando dovrebbe cominciare la preparazione?
Questi aspetti tornano di attualità in questi giorni, a seguito della pubblicazione, da parte della rivista “Seismological Research Letters”, di un “Opinion paper” di due sismologi canadesi, Kelin Wang e Garry C. Rogers, il cui titolo in italiano suona più o meno così:
“La preparazione [l’essere preparati] al terremoto non dovrebbe fluttuare su base giornaliera o settimanale”.
http://srl.geoscienceworld.org/content/85/3/569.full
L’articolo discute il potenziale applicativo dell’OEF (Operational Earthquake Forecasting, ovvero Previsione Operativa dei Terremoti), anche alla luce della vicenda dell’Aquila, di articoli ad essa connessa, e di altri terremoti.
L’OEF è la pratica sismologica di diffondere con cadenza molto ravvicinata (giorni) le probabilità di occorrenza di un terremoto, calcolate su base statistica. Queste probabilità sono in genere molto basse (0,01 – 0,001 %), ma possono fluttuare, arrivando da 0,001 % (trascurabile) a 5% (molto improbabile). Ora, scrivono Wang e Rogers, il fatto di rilasciare giornalmente una probabilità trascurabile può inviare e consolidare il messaggio che non ci sia poi questo gran bisogno di prepararsi al terremoto. Inoltre, variazioni come quelle descritte sembrano del tutto inefficaci a dichiarare una emergenza, in quanto è difficile presentarsi alle comunità per suggerire azioni, quali ad esempio l’evacuazione, spiegando che gli argomenti a supporto sono del 95% (molto probabilmente) sbagliati. E se anche la probabilità di accadimento salisse al 20% o al 40% le decisioni da prendere sarebbero difficili.
I ricercatori canadesi ritengono, viceversa, che il modo corretto di affrontare il problema in una zona ritenuta sismicamente pericolosa sia la promozione di una strategia di lungo termine per mettere in sicurezza gli edifici vulnerabili (come peraltro sostenuto dalla maggior parte delle persone dotate di buon senso, ma non dalla Sentenza). Riconoscono che una comunità colpita da un terremoto possa concentrarsi maggiormente su quello che “si sarebbe potuto fare a breve termine”, esattamente cioè quanto ha portato sul banco degli imputati sette dei partecipanti alla riunione del 31 marzo 2009. E concludono con un interessante ipotesi, ossia che la “domanda di previsione a breve termine” sia proporzionale alla mancanza di fiducia nella sicurezza degli edifici: più alta in Cina, Haiti e Italia, più bassa in Giappone e Cile. Forse sono ultraottimisti sulla conoscenza della sicurezza degli edifici (per lo meno in Italia); o forse questa è materia per una ulteriore, e più seria, ricerca antropologica.
Ma il loro messaggio più importante è che, anche nelle fasi che seguono un disastro, la comunità scientifica ha il compito di non deviare l’attenzione di governo e pubblico su soluzioni poco praticabili (quali l’OEF, come infelicemente fece la Commissione Internazionale istituita dal Dipartimento della Protezione Civile; Jordan et al., 2011), ma di riaffermare la necessità della strategia di lungo termine.
Proprio questo fecero, in buona sostanza, gli imputati che parteciparono alla riunione del 31 marzo 2009 e, con loro, prima e dopo quella data, la grande maggioranza dei ricercatori italiani che si sono battuti e si battono per il miglioramento e l’applicazione delle norme sismiche, spesso in altre occasioni tragiche – le sole cui loro veniva concessa udienza da governanti e media (Irpinia-Basilicata 1980, San Giuliano di Puglia, 2002 in particolare).
Il processo Grandi Rischi, semplicemente ignorando questi sforzi, ha riportato la questione in un’ottica di breve termine, di emergenza, con la miopia tipica della governance italiana.
A fronte di ritardi generazionali di natura politica, gestionale, culturale, il processo ha cercato di far passare l’idea, ovvero l’understatement, che le vite umane si possano salvare mediante una riunione di esperti, condannando – paradossalmente – proprio una parte di quanti hanno speso una vita per contribuire alla strategia di lungo termine.
In definitiva, ha cercato di sancire che il problema dell’emergenza sismica possa essere affrontato solo dopo qualche scossa, con qualche modello comunicativo ad hoc e poco altro, quando i soliti buoi sono già scappati dalle solite stalle.
Purtroppo non è così. Tutto il territorio italiano è classificato come sismico, e questo significa che – per definizione – dobbiamo attenderci scuotimenti sismici, anche forti, anche senza sciami e/o riunioni di commissioni.
L’emergenza sismica è già cominciata, da molto tempo, laddove ci sono edifici vulnerabili. Sarebbe bene che governanti, pubblico e comunicatori ne fossero al corrente.
L’emergenza sismica è sempre e ovunque!
Riferimenti
Jordan, T. H., Y.-T. Chen, P. Gasparini, R. Madariaga, I. Main, W. Marzocchi, G. Papadopoulos, G. Sobolev, K. Yamaoka, and J. Zschau (2011). Operational earthquake forecasting: State of knowledge and guidelines for implementation, Final Report of the International Commission on Earthquake Forecasting for Civil Protection, Ann. Geophys. 54, no. 4, 315–391, doi: 10.4401/ag-5350.
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